Abruzzo 2009

6 aprile 2009, ore 3.32. La terra d’Abruzzo trema violentemente (6,3 gradi Richter). Epicentro del sisma l’area su cui sorgono le città di l’Aquila, Sulmona e Paganica. Il terremoto dura solo pochi secondi, ma è tanto forte da spazzare via case, sogni e vite umane, tante.
I primi soccorsi, come d’obbligo, sono prestati dai volontari delle associazioni colpite loro stesse dal sisma, tuttavia in poche ore si mette in moto l’imponente macchina dei soccorsi: Protezione Civile, A.N.P.AS. e Croce Rossa insieme per aiutare un paese colpito dalla forza devastante della natura. Di regione in regione arrivano le disponibilità ad inviare uomini e mezzi.
A tempo di record anche la Croce Verde di Perosa spedisce presso la Centrale Operativa A.N.P.AS. - che gestisce e coordina i diversi campi di lavoro delle Pubbliche Assistenze - i nominativi dei volontari resisi disponibili a prestare la propria opera. Ora non ci resta che attendere la chiamata.
E’ domenica sera quando arriva la conferma della nostra partenza per l’Abruzzo. Destinazione il Campo A.N.P.AS. presso il sito dell’Acquasanta, 1 km sotto il centro, presso il campo della squadra l’Aquila Rugby.
La partenza è fissata per Venerdì 22 maggio ore 20.30 con ritorno sabato 30 maggio. Protagonisti e portatori dei simboli della Croce Verde di Perosa, il sottoscritto e Franco Ughetto. Non siamo preoccupati, ma CURIOSI. Cosa andremo a fare!!!
I giorni che precedono la partenza sono ricchi di preparativi.
E’ venerdì, lasciamo la sede di Via Chiampo emozionantissimi e con tantissimo entusiasmo.
Il luogo di ritrovo è Torino presso la sede dell’A.N.P.AS. Lì sono raccolti tutti gli equipaggi provenienti da ogni angolo del Piemonte. Saranno i nostri compagni di avventura. Prima della partenza ufficiale però è d’obbligo il breefing: qualcuno finalmente ci spiegherà il nostro compito al campo. Ci informano che il campo è gestito interamente da noi volontari: cucina, bagni, pulizie segreterie, lavori idraulici ed elettrici..., ecco il perché della richiesta di volontari con capacità pratiche!!!
Partiamo: 6 furgoni formano una colonna umanitaria. Già si respira il clima di solidarietà. Io e Franco siamo nel furgone capo colonna, il n. 1 Insieme a noi il responsabile della colonna regionale, Davide, della Croce verde di Pinerolo e due volontari della P.A. di Sizzano (NO). Finalmente in viaggio, quasi 12 ore !!! L’arrivo al mattino verso le 7.30, stremati.
Dopo una breve attesa ci consegnano il pass (è necessario per evitare intrusioni di estranei, non residenti). Tutti, anche gli animali sono muniti di pass di riconoscimento.
Giorno dopo giorno diveniamo anche noi “abruzzesi”: condividiamo le gioie e le sofferenze degli ospiti, aiutiamo nelle attività quotidiane quali la preparazione del cibo, il servizio ai tavoli, il mantenimento in efficienza dell’impianto elettrico, le pulizie - non le dimenticheremo MAI!!
A dir la verità solo due cose ci tradiscono dall’abruzzese D.O.C.: l’inflessione dialettale (nel nostro caso “barotta”), ed il colore monotono del nostro abbigliamento, l’arancio. L’arancio è il colore dell’unione: nessuno al campo fa qualcosa da solo, ma sempre in squadra, dal lavoro più umile a quello più complicato, il tutto con una forte intesa in un mix di dialetti di ogni parte di Italia, con piacevoli scambi culturali, dalle esperienze in Associazione alle più gustose esperienze di cucina…!! Nonostante i disagi si respira la voglia di ricominciare.
Il nostro soggiorno volge ormai al termine, una settimana dopotutto passa in fretta.
E’ venerdì notte ed anche la terra vuole salutare il nostro rientro a casa ed ecco allora che proviamo anche noi l’esperienza del terremoto: una scossa abbastanza forte ci fa saltare sui nostri materassi. Fortunatamente siamo già in tenda e non abbiamo nulla da temere.
Non dimenticheremo sicuramente i volti delle tante persone che abbiamo conosciuto, i loro abbracci, in una parola non dimenticheremo l’Abruzzo e siamo certi che anche loro non ci dimenticheranno. Ricorderemo per sempre le parole d’amore e gratitudine nei nostri confronti in fondo sono cose che si inseriscono nel cuore con una presa così stretta che non si staccheranno mai più.
P.S. A detta dei “residenti” il campo gestito dall’A.N.P.AS. è il migliore dal punto di vista del trattamento degli ospiti e questo ci rende orgogliosi perché vuol dire che abbiamo svolto al meglio il nostro compito.
Grazie Abruzzo

Bielorussia 2000

Partenza ore 22,30 circa, Km all'arrivo 3.000!!!, una bella sfacchinata sia per gli uomini che per i mezzi (un pulmino e la mitica 18, l'ambulanza "storica" - per età, che credete? - mica per imprese).
Gli uomini ottimisti o incoscienti, tuttavia fiduciosi che lo spirito che anima la "missione umanitaria" basti e avanzi.
Il seguito è composto di 2 furgoni e 3 camper dell'associazione "SENZA CONFINI" pieni fino all'orlo (e oltre) di regali per le famiglie, i bambini e l'orfanotrofio di Recica. Guidiamo tutta la notte attraverso la Svizzera e l'alba ci trova già in Germania. Senza mai fermarci, se non per un rapido spuntino, arriviamo fino a Legnica in Polonia. Una breve visitina alla cittadina per trovare un posto carino per cenare e poi tutti a nanna; il viaggio ricomincerà l'indomani.
Le strade della Polonia sono un po' dissestate e i limiti di velocità ristretti (max. 90 Km/h).
La giornata trascorre lentamente attraverso pianure sempre più spoglie... e arriviamo al confine con la Bielorussia, a Terespol, dove ci fermiamo in un campeggio con bungalow per mettere la testa sui cuscini.
La sveglia suona all'alba e in un batter d'occhio (così si suole dire) ecco la frontiera con la Bielorussia. Sapete quanto è lunga quella che sulle cartine è una sottile linea di demarcazione? 10 Km. ACCIDENTI!!! e quanto si impiega ad attraversarla? 8 ore (di nuovo ACCIDENTI!!!). I controlli sono infiniti e per fortuna che siamo un convoglio "umanitario"...!!!
Alle 15,00 ora locale ( la Bielorussia è due ore avanti, 1 quando è in vigore l'ora legale) usciamo dalla frontiera... ancora 500 Km alla meta. Nonostante le più cupe previsioni e gli auspici, i mezzi resistono, noi un po' meno. La stanchezza comincia a farsi sentire e la velocità di punta (70 Km/h max.) non aiuta; l'obiettivo pare irraggiungibile, si vedono solo pinete ed un'infinita pianura.
FINALMENTE!!! La meta.
Sono le 23,00 passate (in ritardo di oltre 3 ore sulla tabella di marcia), ma la gente che ci è venuta ad accogliere è ancora tutta lì. Noi siamo frastornati, loro felicissimi di vederci.
Veniamo divisi per motivi logistici, ognuno di noi sarà ospite di una famiglia diversa; ci riuniremo nuovamente in occasione della manifestazione della consegna alla rappresentanza dell'ospedale di Recica.
Il giorno 22/8 è speciale: siamo tutti presi dal discorso del sindaco di Recica e delle varie autorità intervenute.
Fa' seguito una nostra piccola dimostrazione pratica delle attrezzature e consegnamo l'ambulanza con un po' di commozione.
Il nostro soggiorno prosegue con una visita a Gomel (la seconda città più importante della Bielorussia)... siamo tornati alla grande, caotica, occidentale - se così si può dire - città.
Recica è più piccola: la periferia è fatta di case piccole, divise da cinte di legno con doppie finestre, sono proprio due, tappeti ovunque per tenere fuori il freddo, i bagni fuori... (sono pochi coloro che possono permetterselo in casa); la zona centrale è fatta di casermoni spogli, tutti uguali, con appartamenti tutti uguali, pochi negozi. Lo "spettacolo" non è rose e fiori!!!
Le persone qui sono belle dentro, sorridono con calore, accettano i nostri doni con gioia e si fanno in quattro per darci un po' di "occidente": i pasti abbondanti, l'acqua minerale, la Coca-Cola, che qui costano come 1/2 stipendio.
E' giunto il momento di ripartire, attraverso le lacrime - non si salva proprio nessuno!!! - ci salutiamo e portiamo con noi il ricordo di persone che hanno poco, ma sanno dare moltissimo.

Albania 1999

Antefatto
Il 24 marzo iniziano i bombardamenti della NATO sulla Repubblica Jugoslava, che provocano una immediata accelerazione nell’esodo, principalmente verso l’Albania e in misura minore verso la Macedonia e Montenegro, dei profughi dalla regione del Kosovo. Un esodo che, per le sue dimensioni, coglie di sorpresa le stesse organizzazioni umanitarie internazionali.
Il Governo italiano decide di intervenire con una iniziativa umanitaria (obiettivo iniziale: assistenza diretta a 20-25.000 profughi kosovari in strutture organizzate) e il 29 marzo, invia una delegazione in Albania per i necessari contatti con il Governo albanese: guidata dal ministro dell’interno Rosa Jervolino Russo, ne fanno parte il sottosegretario alla Protezione Civile, Franco Barberi, il sottosegretario agli esteri Ranieri, il Capo della Polizia di Stato, dirigenti della protezione civile e del Ministero della Sanità.Prima della partenza della delegazione il sottosegretario Barberi insedia l’Emercom, il Comitato Operativo della Protezione Civile per la gestione delle emergenze (ne fanno parte i responsabili di tutte le amministrazioni dello Stato, degli Enti interessati, i rappresentanti della CRI e delle Associazioni di volontariato di protezione civile).
Comincia a delinearsi l’operazione Arcobaleno con la predisposizione di tutte le misure necessarie per il primo trasferimento in Albania di materiali, mezzi e uomini per la predisposizione dei Centri di accoglienza.
La Delegazione, assistita dall’Ambasciata Italiana, dalla Delegazione Diplomatica Speciale, dalla Delegazione Italiana Esperti, dalla Missione Interforze, incontra i rappresentanti del Governo albanese e le autorità locali e inizia l’attività di selezione delle aree di insediamento dei centri di accoglienza. Un elenco di aree viene messo a disposizione dal Governo albanese.
Ma, fin da un primo esame, nella quasi totalità queste aree non risultano idonee alla creazione di tendopoli (distanza dalle reti di servizi, fondi acquitrinosi, isolamento da centri abitati, etc.).
Si rende quindi necessario utilizzare aree private, strada, che si rivelerà non facilissima, vista la situazione albanese (inesistenza di normative su esproprio temporaneo o occupazione d’urgenza, frammentazione della proprietà) che per un singolo terreno registrava magari una cinquantina di legittimi proprietari da mettere d’accordo.
Per assoluta carenza di fondi, il governo albanese autorizza l’occupazione di aree private ma con affitto a carico delle missioni straniere.Intanto emerge come una priorità assoluta la realizzazione di una struttura di prima accoglienza a Kukes dove si riversano migliaia di profughi stremati e spesso feriti.
Il 31 marzo la Delegazione italiana rientra in Italia e riferisce al presidente del Consiglio ed al comitato dei ministri per il coordinamento della Missione Arcobaleno.
Il 1° aprile il Ministro dell’Interno e per il coordinamento della protezione civile emana l’ordinanza che disciplina l’intervento italiano in Albania e stanzia i primi fondi.L’esodo forzato dei profughi kosovari – al 29 marzo stimato in 100.000 unità – aumenta sensibilmente con il passare delle ore fino a giungere – il 1 aprile – alla cifra di 250.000 persone (stime Unità di crisi albanese e UNHCR).
Parte la Missione Arcobaleno
Lo stesso 1° aprile inizia il trasferimento in Albania del personale della CRI, del volontariato di protezione civile, dei mezzi e materiali (tende, materassini, sacchi a pelo, cucine da campo, strutture sanitarie, autobotti per l’acqua potabile, e circa 300 volontari di protezione civile, in particolare dell’Associazione Nazionale Alpini).
Come già detto, il primo obiettivo è la realizzazione di un centro di accoglienza a Kukes, dove si verifica il maggior afflusso di profughi dal valico di Morini, distante circa 5 chilometri.
Inizialmente la zona era stata esclusa, considerata la vicinanza con la zona di guerra: ma la situazione tragica spinge i responsabili della Missione Arcobaleno ad installare il primo Centro proprio a Kukes. Contemporaneamente vengono identificate altre due aree nella zona di Durazzo (una demaniale, l’altra privata). Le aree vengono materialmente consegnate la sera del 2 aprile e i volontari, tecnici e funzionari di Protezione Civile iniziano immediatamente l’allestimento delle tendopoli e le prime elementari opere di urbanizzazione.Il 4 aprile, domenica di Pasqua, la tendopoli di Kukes è approntata (al 90 per cento) e comincerà a ricevere profughi dal 7 aprile.
Kavaje, pronta anch’essa al 90 per cento, lo stesso giorno comincia (di notte) ad accogliere profughi. Intanto il lavoro di identificazione delle aree e l’allestimento delle tendopoli prosegue in varie altre zone dell’Albania...
... noi andremo a "Skijak"
Partiamo alle h. 6 di mattina da Torino con l’auto dell’A.N.P.A.S.
Arriviamo al porto di Bari intorno alle h 18 del giorno stesso dopo un lungo ed estenuante viaggio in autostrada sotto un sole cocente.Aspettando i documenti per imbarcarci occupo il mio tempo pensando e ripensando.
Mi chiedo più volte a cosa andrò in contro, chi troverò, se sono in grado di sostenere fisicamente e psicologicamente un’esperienza del genere e ovviamente se mai tornerò a casa.
Potrebbe sembrare esagerato, ma in fondo non ho nessun tipo di garanzia. Ho visto le lacrime di mia madre per la mia partenza e l’orgoglio di mio padre per il mio impegno.
Nel porto di Bari non ci sono altro che albanesi e facce mica da ridere tanto da stare seduti sullo zaino per non farselo portare via. Ho sonno e fame, ma sono troppo elettrizzata per riuscire a riposare.
Finalmente, dopo due ore di attesa, iniziano ad imbarcare i mezzi nella stiva della nave e poi, a ruota, noi. Il traghetto non è proprio come me l’ero immaginato, ma tutto sommato c’è di peggio. Appena a bordo portiamo le nostre cose in cabina. Siamo quattro donne, le uniche della missione: io e la mia "collega", una dottoressa di Modena e una volontaria di Bologna. Non resisto a stare dietro un oblò, così esco sul ponte….Che spettacolo! Bari illuminata è bellissima.
Non conosco nessuno a parte la mia compagna di viaggio, ma presto faccio conoscenza con un gruppo di volontari della Protezione Civile di Frascati e di Salerno. Inizia uno scambio di esperienze. Ascolto ammirata i racconti di chi per la terza volta affronta questo viaggio e non riesco a non tartassarlo di domande per farmi un’idea un po’ più precisa di cosa vedrò e di cosa farò. Intanto chiacchierando è il tramonto. Fantastico. Inizio a sentire già da ora una grande nostalgia di casa. Immancabilmente piango. Mi rendo conto di essere in mare aperto. Mi sento peggio di prima. Rimango fino alle due di notte a guardare il mare meraviglioso e terrificante allo stesso tempo. Intorno a me solo buio e acqua. Finalmente crollo dal sonno così vado a dormire. In cabina fa un freddo bestiale, spifferi ovunque. Il dondolio del mare mi culla, ma mi sconquassa lo stomaco. Mi addormento consapevole che l’indomani comincerà la mia avventura e ho addosso un misto di paura, agitazione e felicità.
Intorno alle otto di mattina del giorno dopo ecco il porto di Durazzo, Albania. La prima cosa che mi salta agli occhi sono le cisterne arrugginite che dominano la baia. Tra me e me penso: cominciamo bene. Auto vecchie e rovinate, militari ovunque, tra polizia e militari armati fino ai denti sono le uniche cose visibili. Ci radunano sul ponte principale per spiegarci alcune cosa prima di scendere a terra…
Non camminare soli, non fissare i militari albanesi, non urlare e tenere sempre con se un documento e le tesserine della missione. Inutile definire , dopo questo, lo stato d’animo con cui scendiamo. Terrorizzati. Attendiamo tutti li insieme lo sbarco dei mezzi chiacchierando sul molo intorno a mille volti che ci scrutano. I pulmini dei campi a cui siamo destinati aspettano a circa un km dall’attracco della nave. Con i nostri zaini riempiti solo dell’essenziale, (sacco a pelo, divise dell’Associazione da appartenenza e alcuni viveri per la sopravvivenza….nel mio caso Nutella!) percorriamo sotto un sole ustionante i primi passi in terra straniera. Il nostro pulmino è diretto al campo profughi di Shijak a circa un’ora dal porto. Le strade asfaltate esistono solo intorno al porto, per arrivare al campo sembra di partecipare ad un rally anche se la velocità massima è di 40 km/h.
Davanti ai miei occhi solo povertà e abbandono. Attraversando i vari paesini le tante case costruite a metà con infilzate nelle armature dei muri alcune bambole di pezza. Chiedo all’autista, che è il capo campo, il loro significato e solo dopo mi rendo conto in che realtà sono finita. Esse non sono altro che una sorta di “scaccia kosovaro”: per evitare che i Kosovari fuggiti dalla loro terra si accampino tra le mura delle case albanesi in costruzione. Tutto questo mi lascia sconvolta. Per strada incrociamo alcune specie da bancarelle fornite di taniche di olio per auto e di carburante. Scopro che sono i benzinai.
Aumenta sempre di più la mia preoccupazione. In pulmino mi viene chiesto ho qualche nozione di computer. Annuisco e mentre gli altri vengono lasciati al campo io vengo portata nella capitale, Tirana. Tutto sommato non è male , scarna, ma finalmente città. Entriamo nell’ hotel riservato alla missione; mi aspetta la direttrice dei vari campi e delle varie piccole missioni interne. Dopo un breve colloquio mi chiede se voglio passare i miei quindici giorni lì ad amministrare l’organizzazione dei trasporti all’ospedale e in aeroporto. Realizzo che lì avrò tutti i confort possibili e non correrò rischi di alcun genere…Ma diamine, non ho fatto un viaggio del genere per poi non stare a contatto di chi ha bisogno; quindi punto i piedi e mi faccio riportare al campo. Probabilmente mi avranno presa per pazza, ma sono partita con l’idea di stare con la gente e così voglio fare. Voglio avere un contatto diretto con i Kosovari, accettando tutti i pericoli che questo comporta.
Una volta tornata al campo non capisco subito la mia mansione. Fortunatamente stringo un legame con un ragazzo di Piacenza che mi aiuta; mi fa fare un giro del campo e mi fa capire che non è importante cosa fai, ma perché. Rincuorata inizio a sentirmi meglio. Noi volontari dormiamo tutti insieme in un enorme camerine situato in una vecchia caserma, non ci sono né porte né finestre. Poco importa perché fa tanto caldo e l’aria è come se non ci fosse.
Ogni famiglia kosovara è accampata in una tenda militare, in tutto saranno una cinquantina., ma in ogni tenda ci sono dalle sei alle dieci persone. Al centro del campo c’è la cucina con la nostra mensa. Negli orari dei pasti principali vendono distribuite le razioni alle famiglie. Ai lati del campo ci sono i magazzini, uno per il vestiario e uno per i generi di prima necessità (carta igienica, shampoo, spugne….).
All’ingresso del campo c’è una specie di “reception”, con la radio, il telefono satellitare e una volontaria che controlla le uscite e le entrate delle persone. Senza permesso non si può uscire. Essa organizza anche i vari trasporti in città e i servizi per l’aeroporto. Io vengo poi destinata al magazzino dei generi di prima necessità…Che macello!!! Scatoloni e polvere ovunque; mi rimbocco le mani e con l’aiuto di due kosovari mettiamo a posto le cose. Dobbiamo tenere un registro di consegna e dei componenti per ogni famiglia.
Mentre io lavoro dentro il magazzino, fuori bimbi di tutte le età scorrazzano per il campo, chi scalza, chi con ciabatte di fortuna…Sono gli unici che danno al campo allegria e spensieratezza, anche se presi ad uno ad uno lasciano intravedere una tristezza e una solitudine profonda. Con noi volontari sono molto affettuosi, pronti a dividere con noi l’unico biscotto che hanno. Negli adulti invece c’è un misto di vergogna e gratitudine. Persone splendide, generosi pur non avendo più nulla. Spesso nella giornata vengono a portarmi caffè turco o caramelle, obbligandomi a fermarmi e a sedermi.
Lavoro dalle otto del mattino circa (dopo la rituale doccia mattutina, momento di ritrovo tra noi volontari) fino alla sera alle venti, con una pausa pranzo di circa mezz’ora. Le giornate si susseguono faticose, ma piene di soddisfazioni.
Nel campo è allestito anche un piccolo ospedale (tre letti). Le visite iniziano al mattino presto e ogni sorta di caso si presenta agli occhi della dottoressa. Il caso che più mi ha colpito è stata una bimba di 20 giorni, nata di sette mesi. E’ stata affettuosamente soprannominata da noi “ranocchietta” per le sue ridotte dimensioni. Che pena vederla nel letto di un ospedale con una flebo attaccata al braccino.
Dovendo affrontare un viaggio di quarantotto ore per tornare in Kosovo (che a parere medico la stroncherebbe), tra noi volontari scatta una sorta di solidarietà e con l’aiuto della dottoressa convinciamo la direzione di Tirana a farla trasportare in elicottero. Che gioia quando abbiamo saputo che sarebbe stato così! ….Ma quante lacrime al momento dei saluti, abbracci dai genitori con parole toccanti come “grazia, italiana”…Mi chiedo ancora tutt’oggi se questa bimba ce l’abbia fatta o no.
Il giorno seguente vengo reclutata per andare a fare servizio all’aeroporto di Tirana con l’ambulanza del campo (di una Pubblica Assistenza di Lucca) per trasportare in ospedale le persone che arrivano in elicottero e bisognose di ricovero.
Ci carichiamo in ambulanza scatole e scatole di bottiglie di succhi di frutta, caramelle…Subito non ne capisco il motivo, poi lungo il tragitto sconnesso, parecchi bambini quasi si buttano sotto l’ambulanza per fermarci. Sono sporchi, scalzi e le uniche cose che dicono sono “italiano amico caramello”. Quindi senza arrestare l’ambulanza (se no non partiamo più!) diamo loro le cose al volo e loro con un sorriso ringraziano. Ne vediamo altri rovistare scalzi in mezzo a montagne di rifiuti. Questo lascia me e il mio compagno distrutti.
Entrati in aeroporto dopo miriadi di controlli iniziamo a curiosare. Lungo le piste troviamo di tutto, resti di aerei , elicotteri militari, truppe in addestramento: tutti però ci guardano e ci salutano.
Gli ultimi giorni iniziano ad andare via le carovane dei profughi del nostro campo. Quindi ci diamo da fare a smontare le tende e ad aiutarli a raccogliere le loro cose negli scatoloni. Vederli andare via è una pugnalata al cuore ogni volta. Parlando con alcuni di loro mi confessano del loro terrore una volta nella loro terra, di non trovare più la loro casa, la loro vita.
Nonostante la missione sia quasi finita, sento ancora spesso nella notte il rimbombare degli spari dei kalashnikov. Orribile…Con la nostra partenza si chiude anche il campo di Shijak . Che tristezza vederlo ora vuoto e ricordarlo pieno di vita qualche giorno prima. Sui muri dell’ospedalino le scritte e i disegni dei Kosovari ci lasciano un segno indelebile..
Torniamo al porto. Stesse ore di attesa, ma a differenza dell’andata, questa volta non mi importa quanto devo aspettare. Non mi importa perché so che sto tornando a casa e solo ora capisco perché quella povera gente aveva così tanta voglia di rivedere la loro terra, pur consapevoli di trovare ancora guerra e distruzione. Ringrazio il cielo di avermi concesso un’opportunità del genere e di aver potuto donare il mio aiuto (fisico e morale) a persone sicuramente meno fortunate di me.
SHIJAK (Area in affitto) Aperto il 16 aprile, ha ospitato fino a 1.100 persone in strutture in parte fisse e in tendopoli. Ospitava già, sommariamente accampati, 150 profughi. Attivate attività scolastiche. Completo di infermeria e di cucine da campo.
Chiuso l’11 luglio 1999.